Testo per il catalogo della mostra: “Dal Bianco al Nero”, Castello di Rivara, Torino, 2011
Clara Tosi Pamphili
Ci sono opere che si esprimono da sole, anarchicamente. Non rispondono a collocazioni temporali o di
genere, stanno nei mondi di mezzo, quelli dove è difficile capire quali sensi vengano colpiti a
guardarle. Si guardano, si ascoltano, ci sembra quasi di poterle mangiare oltre che toccare. Stordiscono
nel loro eclettismo sensuale. Ci incantano e toccano anche quel lato amorevole di entusiasmo infantile
che ci fa aprire la bocca a guardarle, ci fanno girare un pò la testa cercando il verso giusto per capire se
dentro c’è nascosto qualcosa.
Ci chiediamo chi le ha fatte e perchè, cosa lo porta a compiere lo stesso gesto, con gli stessi materiali e
gli stessi colori. Cosa sta cercando di farci vedere in un discorso muto urlato senza suoni.
Chi è Oreste che cerca la polvere giusta per impastare questa storia? Come si fa a liquidarlo come
artista contemporaneo? Che cosa fa lui che per primo si definisce un tecnico che fa un lavoro serio?
Il lavoro di un ricercatore ossessionato da qualcosa da trovare. Il movimento di un danzatore provato e
riprovato, per continuare a roteare su se stesso cercando non solo l’equilibrio ma anche l’armonia.
L’impasto continuamente girato, gli ingredienti prima inerti che si muovono in un compito diverso:
fare un segno, renderlo vero, materializzare un immagine ancora non chiara, ancora mossa come in
una foto che non riusciamo a mettere a fuoco. Questa malattia, quest’ansia plastica si ripete , mai nella
stessa forma, ma con la stessa modalità, come un’ombra troppo veloce da interpretare. Come si fa a
descrivere esattamente quel pensiero che in fin dei conti abbiamo solo noi nella testa?
Ogni tela è il tentativo di dire qualcosa ed essere capito. Il bianco ed il nero diventano necessari per
non permettere distrazioni, per eliminare ogni possibile frivolezza dal lavoro dell’uomo. E’ serio questo
lavoro come quello di un operaio o di un chimico, non necessita di altro colore per raccontare la
propria storia. Concetti assoluti ma arrovellati su se stessi, pensieri puri, domande a cui non c’è risposta
che si ripetono ancora e ancora nella nostra testa. Onde di lava e schiuma, si muovono da sole per
rappresentare la forza del pensiero che non si riesce a spiegare. Forse non vuole realmente spiegare
per non finire mai il lavoro, per non uscire da una musica che tiene in vita l’artista.
Morbido il nero, lucido il bianco, raffinato il tono intermedio. Tutto è elegante, come studiato da un
grande couturier. Pieghe, curve e volute sembrano disegnare chiaroscuri di abiti non per ogni giorno,
non per chiunque. Perfetti come particolari di un mondo femminile etereo. Acustici perchè sembra di
sentire il rumore del tessuto che scroscia, tessuti bianchi più pesanti come i rasi e i taffetà, e i velluti del
nero che scivola su se stesso. Il nero rigoroso si scioglie nel colore dell’abito da sera, diventa voluttuoso
negando tutta la sua vocazione monastica. Il bianco da sposa, il bianco materno si arriccia ricordando
quell’estasi della santa che cedeva al trasporto trascendente ma fisico.
Un cibo nero ed un cibo bianco. Un impasto che rimane sulla tela su cui vorremmo affondare le mani.
Un nutrimento essenziale del bianco del latte legato dal colore del nulla, dal nero. La ricchezza e la
povertà. Il racconto di un mondo contemporaneo che vive all’insegna del contrasto, senza possibilità
di mescolarsi, solo all’insegna del confronto. Una scacchiera dove non è più possibile posizionare
pedine, dove il fondo non è più piano ma si muove continuamente senza permettere stabilità.
Instabile la ricchezza come la povertà.
Quasi banale pensare al bianco e nero della fotografia che rifiuta l’allegria del colore, malinconica,
biografica ancora documento storico, necessaria riproduzione dei fatti. Al bianco e nero del cinema
impastato di letteratura, capace di emozionare solo col contenuto.
Pesanti, massicce come pareti di marmo, parti di architetture moderne perchè arcaiche. Faticose da
costruire che Oreste realizza in una sorta di ritiro spirituale questa estate nel Castello di Rivara. Dodici
pagine accartocciate su se stesse, come quei fogli che strappiamo perchè non riportano quello che
cerchiamo di scrivere. Un lavoro cristiano che non offre risposte ma dubbi, che suggerisce la litania di
una specie di preghiera che si scioglie in ogni tela come unica soluzione al malessere della ricerca
interiore. Un lavoro laico perchè fisico per niente trascendente quando si materializza grazie alla forza
delle mani.
Col bianco e col nero della scrittura,Oreste ci ha scritto una lettera.